Skip to main content
EmatologiaNews

Leucemia Mieloide Cronica

By 24 Luglio 2014Gennaio 28th, 2019No Comments

E’ un disordine dell’emopoiesi caratterizzato da una proliferazione e da un progressivo accumulo di cellule mature granulocitarie a livello midollare. E’ un disturbo clonale legato all’espansione di una cellula staminale già orientata, che mantiene la capacità iniziale di differenziarsi verso la linea dei globuli bianchi.
E’ una malattia che ha la massima incidenza tra i 50 e i 60 anni, colpisce prevalentemente il soggetto maschile ed è molto rara nei bambini. Non vi sono sicuri fattori in grado di determinare da un punto di vista eziologico tale patologia; l’unico fattore predisponente si pensa possa essere l’esposizione alle radiazioni ionizzanti.

Che cosa è il cromosoma Philadelphia?
Questa malattia è contraddistinta da una alterazione citogenetica tipica, dovuta ad una traslocazione tra i cromosomi 9 e 22, che è dimostrabile in tutti i precursori emopoietici. Questa traslocazione (scambio di materiale tra un cromosoma e l’altro) permette la giustapposizione di un oncogene (gene di regolazione), chiamato Abelson (abl) presente sul cromosoma 9, sulla regione del 22 chiamata breakpoint cluster region (bcr). La fusione di questi due porta alla formazione di un gene anomalo (bcr/abl) che a sua volta viene tradotto in una proteina di fusione ad azione tirosin-kinasica (regola le funzioni metaboliche cellulari) che è alla base della trasformazione leucemica.

Come si può presentare?
La leucemia mieloide cronica si può presentare in tre fasi diverse:
fase cronica: quando sono presenti poche cellule blastiche nel midollo al di sotto del 5% e possono anche non esservi sintomi.
fase accelerata: quando sono presenti più del 5% ma meno del 30% di blasti nel midollo e meno del 5% nel sangue periferico.
crisi blastica: la percentuale di blasti è superiore al 30% nel midollo e/o al 5% nel sangue periferico.

Quali sono le manifestazioni?
E’ generalmente una diagnosi di laboratorio, quando avviene in fase cronica, perchè il paziente può essere asintomatico e scopre da normali analisi di routine di avere una leucocitosi (aumento dei globuli bianchi). L’emocromo rileva infatti una leucocitosi più o meno marcata; l’esame morfologico del sangue periferico dimostra la presenza di un aumento dei granulociti e dei loro precursori nelle fasi più mature. Si completa la diagnosi con l’esame citogenetico che permette di rilevare la t(9;22) tipica; a volte questa traslocazione è nascosta da altre alterazioni cromosomiche e si dice allora che è “mascherata”. In questi casi è necessario completare la diagnosi con metodiche di laboratorio più sensibili, quali la FISH (fluorescent in situ hybridization) che permette di vedere il punto di giunzione dei due cromosomi attraverso l’uso di una sonda molecolare marcata con una sostanza fluorescente o con la PCR (polymerase chain reaction) che permette di amplificare il DNA delle cellule e rilevare direttamente il punto di fusione e la lesione molecolare tipica.
Da un punto di vista clinico si può avere inoltre senso di ingombro addominale e di tensione epigastrica per la presenza di splenomegalia, che quando è spiccata, può determinare anche disturbi digestivi e dolore alla spalla sinistra.
Molto più rari altri sintomi quali quelli correlati ad un aumento del numero delle piastrine (trombosi) o per una leucocitosi importante che determina una situazione di iperviscosità a carico dei piccoli vasi (vertigini, senso di confusione, disturbi visivi, quando a carico dei vasi cerebrali o dell’occhio) o priapismo doloroso (erezione persistente, quando la trombosi è a carico dei corpi cavernosi del pene).
In fase accelerata possono comparire disturbi quali febbre, dolori ossei, sudorazione eccessiva, un ulteriore ingrandimento della milza o altre organomegalie.
Inoltre con la progressione in crisi blastica compaiono i segni di una infiltrazione midollare, quali anemizzazione grave, possibili gravi infezioni e piastrinopenia con gravi emorragie.
La fase accelerata e la crisi blastica, che possono comparire anche all’esordio o interrompere una fase di remissione dovuta alla terapia, si accompagnano generalmente ad altre alterazioni cromosomiche aggiuntive, quali una duplicazione del cromosoma Philadelphia o altre anomalie quali una trisomia del cromosoma 8 o l’isocromosoma 17.

Cosa dimostrano le analisi di laboratorio?
-emocromo: si rileva generalmente una leucocitosi con incremento degli elementi della serie granulocitaria, soprattutto i granulociti. Si possono rilevare inoltre una modesta anemia e una trombocitosi.
-analisi sierologiche: aumento del LDH e dell’uricemia, legati al rapido ricambio delle cellule.
-esame del midollo osseo: generalmente ipercellulare, è necessario per stabilire se la malattia è in fase cronica.
-esame citogenetico: si può effettuare sia dal sangue periferico che midollare, per la dimostrazione della t(9;22).
-biologia molecolare: permette di rilevare il punto di fusione e quindi la proteina che ne deriva.

Ci sono fattori prognostici?
Ci sono delle condizioni che possono influenzare il decorso della malattia, quali l’età>60 anni, le dimensioni della milza, il livello dei blasti midollari e periferici, etc. Diversi sono stati i gruppi che hanno studiato l’importanza di fattori prognostici nella LMC, ma uno dei più noti e che viene preso ancora in considerazione è quello di Sokal, che considera 4 parametri; l’età, le dimensioni della milza, il livello di piastrine, e la percentuale di blasti nel sangue periferico.
Si riescono a distinguere così 3 categorie di pazienti a basso, intermedio ed alto rischio che hanno sopravvivenza diversa.

Come si tratta una leucemia mieloide cronica?
In fase cronica:
Inizialmente se il paziente è fortemente iperleucocitario, necessita di una terapia citoriduttiva con idrossiurea ed idratazione per portare alla norma i leucociti.
Poi sono possibili diverse opzioni terapeutiche:
a) Gli inibitori delle tirosin chinasi si sono dimostrati efficaci nella LMC. L’imatinib mesilato (Glivec), ormai farmaco di prima scelta, è un potente inibitore del segnale di trasduzione (cioè di quella parte del metabolismo cellulare che prevede la traduzione del messaggio dell’acido nucleico in proteina) ed agisce in maniera competitiva con la molecola di ATP, legandosi alla conformazione inattiva del dominio chinasico. I risultati dello studio IRIS (il primo studio randomizzato internazionale imatinib nei confronti di IFN+Ara-C), a 6 anni indicano il 97% di risposte ematologiche complete, l’89% di risposte citogenetiche maggiori ed l’82% di risposte citogenetiche complete.
L’incidenza di progressione di malattia nei pazienti che hanno ottenuto una risposta completa passa dall’1,5% del primo anno allo 0,9% del quinto anno di trattamento, scendendo a 0 nel sesto anno; la sopravvivenza totale dei pazienti rispondenti è 89%. Circa il 30% dei pazienti ha sospeso il farmaco per inefficacia e l’incidenza di resistenza in fase cronica è il 14%. Nel 2006 un panel di esperti, coadiuvati dall’European Leukemia Net ha stabilito delle raccomandazioni per monitorizzare la risposta nei pazienti in fase cronica e ha definito anche il fallimento terapeutico, la risposta sub-ottimale e la resistenza primaria e secondaria. Per fallimento si intende un paziente che non trae beneficio dall’imatinib e deve passare ad altra terapia; per risposta sub-ottimale si intende un paziente che può ancora trarre beneficio dall’imatinib, ma il risultato a lungo termine non sarà ottimale. Per resistenza primaria si intende la mancata efficacia del trattamento, mentre per resistenza secondaria si identifica la perdita di una risposta precedentemente ottenuta.
La terapia con imatinib è correlata da scarsa tossicità ed è generalmente sopportata anche dai pazienti anziani. Gli effetti collaterali più evidenti sono dolori muscolari a tipo crampi, ritenzione di liquidi con aumento del peso, edemi periorbitali, congiuntiviti e rash cutanei, risolvibili con la sospensione momentanea del farmaco o la riduzione del dosaggio. Gli effetti collaterali di grado severo tendono a diminuire con gli anni di trattamento. Il dosaggio medio per un paziente in fase cronica è di 400 mg/die.
Mancano ancora i risultati a lungo termine che consentano di stabilire quanto deve durare la terapia; risultati contrastanti sono stati osservati sospendendo il farmaco, ma generalmente viene riportata una perdita della risposta citogenetica e un ritorno alla risposta quando si riprende il farmaco. Mancano dati sulla possibilità di utilizzare con vantaggio terapie di salvataggio con interferone o con il trapianto di midollo osseo, nei pazienti che recidivano dopo sospensione del farmaco o che perdono la risposta.
Con l’uso del Glivec è sorta l’esigenza di monitorizzare la risposta molecolare, utilizzando tecniche di biologia molecolare con PCR (polymerase chian reaction) di tipo qualitativo e quantitativa. Una riduzione precoce dei livelli di trascritto sono predittivi di una risposta citogenetica e di un decorso favorevole. Sono stati definiti i concetti di risposta molecolare maggiore, quando con tecnica quantitativa il rapporto tra quantità di trascritto del paziente e gene di controllo è inferiore a 0,1 e risposta molecolare completa quando il trascritto non è più dosabile. Bassi livelli di malattia residua sono stati associati con remissioni continue: una riduzione di 3 logaritmi del livello basale di trascritto identifica pazienti a scarso rischio di progressione di malattia e con sporadiche perdite di risposta. Una risposta molecolare maggiore a 12 mesi di terapia è predittiva di una lunga sopravvivenza con un rischio di progressione di malattia molto basso. L’Imatinib è utilizzato con ottimi risultati, nelle leucemie linfatiche acute Philadelphia positive ed in altre forme leucemiche.
Sono stati riportati fenomeni di resistenza all’imatinib, più frequenti in fase avanzata di malattia e tale fenomeno è associato a diversi meccanismi. La resistenza primaria è soprattutto dovuta a scarsa inibizione di BCR/ABL (entrano in gioco le cause che influenzano la concentrazione plasmatica di imatinib, come la compliance del paziente, l’assorbimento intestinale ed il metabolismo del farmaco, le pompe di efflusso che ne permettono la ritenzione intracellulare) o ad una riserva inadeguata di cellule emopoietiche midollari Ph negative. La resistenza secondaria è un evento multifattoriale: le mutazioni puntiformi (modificazioni di un singolo aminoacido) nel sito di legame della molecola sono le cause più frequenti, ma possono entrare in gioco anche l’amplificazione genomica con iperespressione di BCR/ABL, iperespressione di molecole per resistenza ai farmaci, evoluzioni clonali con presenza di alterazioni citogenetiche aggiuntive, attivazione del segnale di traduzione per vie alternative. Sono note più di 73 mutazioni, riconoscibili con metodiche che utilizzano apparecchiature deputate alla cromatografia (DHPLC) o il sequenziamento genico e diversi sono gli approcci terapeutici per superare tali meccanismi di resistenza, come aumentare il dosaggio del farmaco a 600-800 mg al giorno, combinare il Glivec con altri farmaci, o utilizzare altri inibitori di seconda generazione.
Il dasatinib è attivo sia contro BCR-ABL (nella sua forma attiva e inattiva) sia contro chinasi della famiglia Src. Ha una potenza circa 300 volte superiore a quella dell’imatinib e si è dimostrato efficace in pazienti con mutazioni, ma anche in pazienti resistenti non mutati con amplificazione genomica di BCR-ABL o l’iperespressione di geni per multidrug resistance. In pazienti in fase cronica resistenti ad imatinib l’incidenza di risposte citogenetiche complete è il 49% ed il 13% dei pazienti ha interrotto il farmaco per effetti collaterali (mielosoppressione e versamenti pleurici); si è dimostrato efficace anche nelle fasi avanzate di malattia.
Il Nilotinib è un nuovo inibitore tirosin-chinasico molto selettivo verso BCR/ABL, 30 volte più potente rispetto all’imatinib. Lo studio di fase II in pazienti in fase cronica resistenti ad imatinib ha dimostrato il 40% di risposte citogenetiche complete con il 15% di interruzioni per tossicità, con minore percentuale di versamenti pleurici, ma maggiore percentuale di eventi collaterali di grado 3/4 come iperbilirubinemia, aumento delle lipasi ed iperglicemia.
Da studi in vitro risulta che nilotinib sarebbe meno mutageno e la mutazione più frequente riportata è la T315I.
Il bosutinib (SKY-606) è un inibitore ancora in fase sperimentale, inibitore di BCR/ABL e Src. La limitata esperienza sui 31/76 pazienti valutabili resistenti ad imatinib, ha evidenziato il 32% di risposte citogenetiche complete, con tossicità limitata di grado 3/4 (rash cutanei e diarrea). Il 50% dei pazienti sviluppa durante la terapia, nausea e diarrea di grado 1/2.
Gli inibitori di seconda generazione non hanno alcun ruolo nella terapia di I linea che è tuttora l’imatinib, ma solo in casi di resistenza.

b) Molti dati a disposizione si hanno riguardo la terapia con interferone alfa. Questa sostanza stimola il sistema immunitario contro la malattia con evidenze di laboratorio che dimostrano la attivazione di particolari tipi di linfociti T e NK e la produzione di sostanze attive contro le cellule malate. Circa il 20-30% dei pazienti raggiunge una remissione citogenetica completa e circa il 55% ha comunque una risposta citogenetica maggiore con un evidente aumento della sopravvivenza a lungo termine. La possibile persistenza di malattia molecolare (cioè visibile solo con metodiche di PCR) si ha anche nei pazienti con una risposta citogenetica maggiore, ma il significato di ciò sulla sopravvivenza rimane ancora da determinare. I pazienti con età superiore a 60 anni hanno simili risposte citogenetiche se confrontati con i giovani, ma gli effetti tossici sono maggiori. L’interferone può avere infatti diversi effetti collaterali: sintomi simili ad una sindrome influenzale (febbricola, dolori osteo-muscolari), nausea, anoressia, perdita di peso e possibili disturbi dell’umore, con stati depressivi anche gravi, tutti reversibili appena si sospende il farmaco. Dopo lunghi trattamenti disturbi immuno-mediati come ipertiroidismo, emolisi autoimmune e disturbi del connettivo possono essere diagnosticati. I pazienti che raggiungono una remissione citogenetica completa devono continuare tale terapia, anche se sono descritte remissioni che persistono dopo la sospensione del farmaco. L’interferone può essere usato anche nelle recidive che si hanno dopo il trapianto osseo allogenico.

c) il trapianto di midollo osseo allogenico, rappresenta il trattamento che consente di guarire la LMC. Pazienti di età inferiore ai 50 anni anche in fase cronica sono candidati ad un trapianto allogenico, a condizione che vi sia un donatore compatibile sia familiare che volontario; va tenuta in considerazione la elevata tossicità e mortalità correlata ad un trapianto. I migliori risultati sono quelli ottenibili con un trapianto eseguito entro un anno dalla diagnosi. Con l’impiego del Glivec, il trapianto allo genico è da effettuare dopo attenta valutazione nel singolo caso dei rischi e benefici.

In fase accelerata:
Le possibilità terapeutiche sono:
Imatinib, questa terapia si è dimostrata efficace anche in questa fase di malattia con un dosaggio superiore (600 mg/die) ottenendo risposte ematologiche complete nel 85% dei pazienti e risposte citogenetiche complete nel 28% dei pazienti trattati con un aumento della sopravvivenza ed una scarsa tossicità. Risposte citogenetiche maggiori ottenute a 3 mesi danno un vantaggio di sopravvivenza rispetto a chi ottiene tali risposte più tardivamente. Sono in uso sperimentale gli inibitori di seconda generazione (nilotinib e dasatinib) che hanno dimostrato efficacia e scarsa tossicità in pazienti con fase accelerata; l’interferone alfa associato ad altri farmaci (citarabina) può dare risposte, ma la tossicità aumenta rispetto ai pazienti trattati in fase cronica. E’ consigliabile eseguire un trapianto di midollo allogenico appena raggiunta una risposta morfologica e citogenetica.

In crisi blastica:
Le possibilità terapeutiche sono:
a) imatinib: si è dimostrato efficace sia in pazienti con crisi blastica linfoide che mieloide, con risposte ematologiche (ritorno alla fase cronica) intorno al 50% e risposte maggiori citogenetiche dell’ordine del 17%. Purtroppo queste risposte non sono durature. Sono in studio associazioni di questo farmaco con chemioterapici. E’ obbligatorio, se è possibile nei pazienti che abbiano risposto al trattamento, con l’ottenimento di una remissione o il raggiungimento di una seconda fase cronica il trapianto di midollo osseo allogenico. Sono state utilizzate associazioni farmacologiche tra imatinib e farmaci come la decitabina, l’omoarringtonina, le farnesil transferasi, con risultati ancorapreliminari.
b) Chemioterapia ad alte dosi secondo gli schemi per le LLA o le LMA, con possibile procedura trapiantologia successiva nei pazienti con donatore compatibile.
c) gli inibitori di seconda generazione (nilotinib e dasatinib): hanno dimostrato la loro efficacia anche in pazienti resistenti a precedente trattamento con inibitori tirosin-chinasici.